Desolazione

Se chiudi gli occhi al mondo, sparirà alla tua vista, ma di certo non perderà i suoi colori mentre tu, al contrario, ti perderai nel buio. Un racconto di Jacopo Berti.

 
Stamattina la città si è svegliata perplessa: non è cosa di tutti i giorni, da noi, aprire gli occhi e scoprirsi sprofondati in una coltre biancastra. Di solito, la bora – che riesce a confondere gabbiani e ombrelli in voli disperati e speranzose rincorse – ha gioco facile contro la nebbia.
Oggi no. Calma piatta. È già l’ora del secondo caffè, in Città Vecchia, e la commessa del negozio di scarpe non vede la sua tazzina mentre le viene portata con un sorriso dal bar di fronte.
La gente cammina piano, non si vede, non si saluta, non si parla. Tutto tace. Per questo ho un brusco soprassalto quando odo, a pochi passi da me, un secco, imperioso ordine.
 
«SPARISCI!»
 
In questo modo un armadio in divisa da sfilata, con due commilitoni al seguito, apostrofa un mendicante di colore. Forse ha avuto l’audacia di abbandonare il suo angolo, per farsi scorgere. Forse ha urtato il militare.
«No, non puoi stare qui. Sparisci!». Sul volto un sogghigno da cattivo da film, accompagnato da un volgare, ottuso disprezzo per l’uomo che ha davanti.
 
Mi fermo improvvisamente, come se avessi annusato quel suono di campanelli che accompagna le cose sacre. Il mendicante, in effetti, sparisce. Scoppia come una bolla di sapone. Improvvisamente non esiste più. L’appendi-mostrine annuisce compiaciuto. Più che il terrore può l’indignazione. Mi avvicino puntandogli l’indice: «Ma cosa ha fatto? Come ha potuto?»
«Ma sparisci anche tu!» mi intima, guardandomi negli occhi e accompagnando le parole con un gesto della mano. E mi ritrovo a spartire la condizione di non-esistenza assieme al mendicante, ai due liocorni, alla città di Laputa, al flying spaghetti monster e ai libri inventati di Borges. Da lì, come da un loggione, ci godiamo lo spettacolo, ma già sappiamo come andrà a finire.
 
Lì sotto, il riempi-vestito-inamidato si guarda intorno e intravede altri mendicanti. C’è un signore sulla sessantina che suona la chitarra e intona a stento le note più acute di Knockin’ on Heaven’s Door. Dopo tanto bussare, finalmente gli viene aperto – «Sparisci!» – ed eccolo qui con la sua chitarra e la sua panchina. Gli si avvicina il capitano Nemo e comincia ad accompagnarlo coll’organo. Ne viene una specie di musica da chiesa e il flying spaghetti monster non apprezza.
 
Nel frattempo, il militare ha imparato a far sparire le cose senza dire sparisci, limitandosi al ghigno e all’occhiataccia rancorosa. Il nostro cosmo extramondano si riempie di mendicanti, di ambulanti, di anziani, di donne non troppo piacenti, di signori che offrono in silenzio mestoli scolpiti con maestria nel legno, le cui venature sono le strade della città mentre si svuotano di bancarelle che vendono stoffe, vestiti, salumi, libri. Di negozi che vendono libri. Ed ecco comparire i ragazzi accampati in piazza della Borsa con le loro tende, che sorridono e ringraziano se rimandi indietro la palla sfuggita ai loro palleggi.
 
Sempre più infervorato, respirando con affanno, l’uomo guarda tutt’intorno con gli occhi sbarrati. Cominciano a passare da questa parte i professori della facoltà di lettere, habitué di quella zona, i preti della curia, il sindaco, gli assessori e i rappresentanti di ogni forza politica. Sembra che restino solo le belle donne e le forze dell’ordine a popolare quel rione. Non che sia rimasto poi molto da popolare, visto che ogni casa con un po’ di intonaco cascante, ogni muro con una scritta, ogni pavimentazione marezzata di chewing gum, viene epurata e passa da questa parte. Tutto ciò che non piace al novello demiurgo scompare dal suo orizzonte, e il suo orizzonte diventa sempre più vasto.
 
Ormai ci sono più cose di qua che di là. Si respira aria di festa: i docenti universitari si sono fiondati sui libri di Borges. I decostruttivisti li riducono a brandelli e i filologi si divertono a sistemarli, incerti se anche nel caso di libri inventati si possa desumere la volontà dell’autore. I preti della curia cantano a squarcia gola – assieme a Nemo e al vecchio chitarrista – l’inno al santo patrono. I politici di professione decidono di fare le primarie e vengono stracciati da Re Utopo. Intanto tutt’intorno si accampano di gitto alberi e case, il castello, la basilica, il mare e le montagne.
 
Dall’altra parte l’uomo in divisa gira su sé stesso con le braccia alzate; impone la sua idea di ordine in un unico ferale urlo. Di qua vediamo apparire le nuvole, il cielo e una dopo l’altra le sfere celesti. Fino a ora eravamo rischiarati soltanto dalle lampadine atomiche dei romanzi di fantascienza, ma ecco arrivare il sole. Ormai è come un carnevale di musiche e di colori. Essere passati da questa parte ci ha resi tutti euforici e anche i più egoisti – che prima non capivano di essere tutti sulla stessa barca – empatizzano con gli altri e godono della comune condizione.
 
In quello che una volta era l’universo, è sceso ormai il buio più profondo. L’uomo non vede più niente. Meglio non rischiare, pensa, e fa sparire tutto a prescindere. Ora si libra nel nulla. Vicino allo zero assoluto, il suo cuore è ormai un blocco di ghiaccio che si indurisce sempre più, in risposta alle ondate di desolazione. Da questa parte lo guardiamo con pietà. Alcuni piangono per lui. Un vecchio prete (escatologo, vengo poi a sapere) ridacchia compiaciuto, indica il cuore congelato, un luogo preciso al suo interno, come se ci fosse qualcosa di recondito, un punto di luce fremente. «Ecco. Ecco. State a vedere. State a vedere…»